I genealogisti arsero incensi attorno a questa cospicua famiglia e fra le nuvole di cotal bassa sfera fecero intravedere corone regie. Ma dissipando d’ un soffio queste nuvole rimane un Pepolo, avo d’ un Ugolino, ch’ era presente all’ investitura conceduta nel 1096 da Vinizone abate di santo Stefano (1). Tuttavolta non ebbero mano quasi affatto nella cosa pubblica prima del secolo XIV. L’ ebbero bensì per tempo nelle contese civili, imperocchè nel 1202, ossia nei primordii delle lotte fratricide, cominciò la costoro nimicizia co’ Tettalasina, che fu aspra e lunga; memorande zuffe ne conseguirono nel 1242 e nel 1274 (2), nella quale ultima battagliò eziandìo l’ una e l’ altra fazione. I Pepoli seguivano la geremea e, dopo che la lambertazza fu qui del tutto doma ed espulsa, cominciarono a farsi largo. Romeo, che aveva avuto ufficii di governo ed era tenuto il più ricco cittadino d’ Italia, da che con l’ usura s’ era formata una rendita di più che ventimila fiorini d’ oro (3) ed era inscritto per ottantamila lire di tributi (4), Romeo adescando la plebe con largizioni, col proteggere i malfattori quasi fossero oppressi, ed insinuando la corruzione nelle classi elevate, riuscì a formare un partito numeroso, che dallo stemma dei Pepoli fu detto scacchese e che doveva aiutar lui a carpire il dominio della patria. Ma, procedendo egli con poca cautela e con soprusi, irritò i libertini, i quali svelando al popolo che le liberalità di Romeo miravano a spegnere la libertà, chiamarono esso popolo all’armi (17 luglio 1321) ed assalirono Romeo nelle proprie case. Il quale, abbandonato da’ partigiani, uscì a cavallo con i cinque figli per una porta posteriore e tutti dando di sprone, e a piene mani spargendo l’ oro che in copia seco avean preso, riuscirono a distrarre i tumultuanti ed a fuggire. Tentato invano di rientrare in Bologna con l’ aiuto dei signori di Mantova, di Verona, di Ferrara e a forza d’ armi, Romeo ebbe confiscate le terre, spianate le case, sbanditi tutti i con sanguinei, e ridottosi presso il papa in Avignone, vi morì (5).
Pepoli
Sei anni dopo questa cacciata, mentre il legato pontificio Du Pojet padroneggiava Bologna, sotto colore di difenderla da’ lambertazzi, vi rientrò Taddeo figlio dell’ espulso, Romeo, altrettanto ambizioso, ma più scaltro di lui. Era versato nelle leggi, ed aveva celebrata la sua laurea con una corte bandita e con tal pompa di cui forse mai non fu vista l’ uguale (6).
Al dispotismo del legato pontificio pose fine non guari dopo una sollevazione, principalmente per opera di Brandelisio Gozzadini. I Pepoli ne profittarono per loro mene e, mostrandosi zelantissimi pel partito guelfo, fecero sì che nuovamente furono sbanditi a centinaia i lambertazzi, rientrati in Bologna per condiscendenza de’ governanti. Sbarazzatisi per tal guisa da molti avversarii, cominciarono a primeggiare e a imbaldanzire. Sì che Giacomo figlio di Taddeo, avendo chiesto un beneficio per un prete suo cliente all’ Acciaiuoli vescovo di Bologna ed avutane repulsa, percosse di una guanciata il vescovo, il quale impugnato un coltello ferì il Pepoli. Quindi una zuffa per le vie, il vescovado arso e saccheggiato, il vescovo in fuga (1336) (7).
Ma a cambiar la repubblica in principato era grave ostacolo Brandelisio Gozzadini, capo de’maltraversi (8), e salito in grande considerazione per la cacciata del cardinale Du Pojet. Onde Taddeo aizzò i Bianchi contro i Gozzadini, tra i quali era vecchia discordia, e quando sulla piazza era imminente una grossa mischia, Taddeo si offerse mediatore. Blandì Brandelisio chiamandolo fratello ed arbitro di Bologna, lo ricondusse alle sue case ostentando rispetto e attaccamento, fece deporre le armi a’ suoi associatisi ai Bianchi, e determinò la fazione maltraversa a disarmarsi e a disperdersi. Subito dopo i partigiani di Taddeo, già pronti, piombarono sulle case de’ Gozzadini, le posero a fuoco e a ruba, e forzarono Brandelisio a fuggire. Scacciarono poscia dalla signorìa i magistrati di parte maltraversa e costrinsero gli altri ad esiliare i Gozzadini e loro partigiani (9).
Non restava a Taddeo che di cogliere il frutto delle sue arti, e poichè aveva compri i mercenarii, per la maggior parte tedeschi, tenuti al soldo dal comune, si fece acclamar da costoro signore di Bologna; poi disarmate senza contrasto le guardie della signorìa ne invase il palazzo. Il consiglio generale sanzionò poscia il fatto compiuto e solo dieci cittadini osarono opporsi (10). Pertanto delle tre famiglie di Bologna ch’ebbero la signorìa del paese, la Pepoli fu la sola che seppe ammantarla delle forme legali.
Taddeo, ricorrendo al solito spediente dei tiranni, suppose congiure ed esiliò coloro di cui temeva. A rappacificarsi con Benedetto XII, che avevalo scomunicato come usurpatore, si fé’ vassallo dei papi ed obbligossi ad un tributo annuo d’ ottomila lire, non che a far marciare i suoi stipendiati a richiesta della corte d’ Avignone. Il papa perciò lo ribenedì, ne sanzionò il potere supremo e gli diè il titolo mendicato di conservatore della giustizia per la chiesa (11).
Imparato a curvarsi, Taddeo si piegò non solo alle pretese del papa, ma altresì dinanzi a quelle d’ un capitano di ventura, duca Guarnieri, il quale con la grande compagnia, stava per entrar minaccioso nel bolognese, attiratovi anche dai fuorusciti. Taddeo gli porse un’ offa di sessantamila lire (12).
E signoreggiò la patria undici anni nel modo col quale avevala soggettata, cioè con i raggiri e con le proscrizioni, onde dissipò i suoi tesori e riempì di esuli gli stati vicini. Morì nel 1347, ed all’ incenso del mortorio seguì quello dei panegiristi. Gli fu eretto il sepolcro in s. Domenico con opera di Jacopo Lanfrani lodata dal Cicognara (13) e vi si veggono figurate in due bassorilievi l’ elezione di Taddeo fatta dal consiglio bolognese e l’ investitura datagli da Benedetto XII.
Succedettero a lui immediatamente nel principato i figli Giacomo e Giovanni, ma il popolo li detestava e avean perduto l’ appoggio de’ Fiorentini, antichi alleati de’ Bolognesi. Strinsero lega con i reali di Sicilia, Ludovico e Giovanna, ma non ne trassero che feudi. Cercarono protezione dal generale della chiesa e conte della Romagna, Ettore di Durafort, ma costui tenne mano ad una congiura volta ad assassinarli (1350). Ciò non ostante non poterono evitare di accordargli 200 uomini d’ arme per guerreggiare in Romagna, e Giovanni stesso si recò al campo di lui con 300 cavalli e con suoi partigiani. Venne accolto dal Durafort con le più manifeste dimostrazioni di affetto; ma, mentre i cavalieri bolognesi sedevano a mense per loro imbandite, Giovanni nella tenda del Durafort fu assalito dal maresciallo dell’ armata papale; stramazzato a terra, incatenato e, senza che potesse chiamare i suoi in soccorso, rinchiuso nella rocca d’ Imola (14).
La novella di questo fatto e della diserzione dei 500 cavalieri, rimasti col Durafort, atterrì Giacomo restato in Bologna, il quale implorò quinci e quindi assistenza. I signori di Rimini e di Mantova gli offrirono alleanza e recaronsi da lui. Ma al Pepoli stava ben altrimenti a cuore quella, assai più valida, de’ Fiorentini e del signore di Milano. Se non che i Fiorentini, mal contenti dei Pepoli, risposero in pubblica udienza all’ ambasciatore, che, saldi ne’ propri principii, non avrebbero risparmiato nè il loro sangue, nè tesori per tutelare la repubblica di Bologna; ma per chi l’aveva suggettata non potevano che interporre buoni ufficii. Questa dichiarazione riportata a Bologna non valse a risvegliarvi l’ antica insofferenza di servaggio, onde Matteo Villani (15) ebbe a scrivere: « i Bolognesi, di già avviliti da servili abitudini, più degni non erano di libertà; i loro peccati gliel’avevano fatta perdere; la loro povertà di spirito impedì loro di ricuperarla ».
Giacomo Pepoli assoldò allora quel sì fatto duca Guarnieri e sue soldatesche, altre n’ ebbe dal duca di Milano e loro lasciò manomettere la città, come i nemici manomettevano il contado: ma più che queste truppe gli giovò una sedizione, per manco di paghe, nel campo del Durafort. A satollare i sediziosi con una taglia, Giovanni fratello di Giacomo fu posto in libertà: promise ottantamila fiorini e ne sborsò ventimila. Allora i Fiorentini trattarono accordi tra il Durafort ed i Pepoli, o meglio i Bolognesi, i quali sperarono di liberarsi anch’ essi. Se non che i Pepoli mentre fingevano di aderire, vendettero Bologna al ghibellino arcivescovo e signore di Milano (6 ottobre 1350) ritenendosi alcune castella. Tradirono così la parte guelfa che li aveva innalzati ed i concittadini che invano rabbiosamente gridavano per le strade « noi non togliamo essere venduti. Il disprezzo di tutta l’Italia (soggiunge Matteo Villani) punì i Pepoli di così vergognoso contratto » (16) nè meno furono puniti dagli avvenimenti successivi.
Giacomo e Giovanni eransi ridotti nelle castella di s. Giovanni e di Nonantola, che insieme con altre vicine s’ erano riserbate, allorchè l’ Oleggio, che . tiranneggiava qui di seconda mano, scoperta l’ anno dopo o supposta una congiura dei Pepoli, imprigionò Giacomo, altri fece decapitare o trascinare a coda di cavallo : confiscò a lui i beni e condannatolo a perpetuo carcere, lo lece tradurre a Milano col figlio Obizzo. Il fratello Giovanni riuscì a scampare e andò dall’ arcivescovo Visconti per chiedergli giustizia, ma non fu ascoltato; ebbe in vece impedito il partire e venne costretto a dare ostaggi e a ceder Nonantola (17).
Alla morte di esso arcivescovo (1354) Giacomo ricuperò la libertà e finì di vivere in Forlì nel 1368. Giovanni trovò favore ne’ successori dell’arcivescovo; fu mandato capitano generale d’ un esercito da Matteo Visconti, per togliere Bologna all’ Oleggio ribellatosi (1355), ma la morte di Matteo troncò a mezzo l’ impresa. Da Galeazzo Visconti fu preso a consigliere, anzi, dice il contemporaneo Bartolommeo della Pugliola, egli « faceva delle terre possedute da Messer Galeazzo come ne fosse signore, perchè quegli non se ne impacciava per niente ». Morì in Pavia nel 1368 (18).
Così Taddeo nel 1338, come i suoi due figli nel 1349, fecer battere bolognini d’ argento co’ propri nomi e cognome, ma senza titolo di signorìa e queste monete erano dette volgarmente pepolesche (19).
I discendenti di costoro non ebbero che qualche velleità nel 1379, 1413 e 1508 di riacquistare il venduto dominio e si fecero seguaci dei Bentivogli che montavano al primato. Parteciparono, come cittadini, al governo dello stato, tennero posto in senato dal 1506 in poi, furono spessissimo tra gli anziani ed ebbero contemporaneamente tre professori nello studio bolognese dal 1438 al 1449 (20). Datisi particolarmente alle armi in tempi in cui parea sbandita la pace, contarono venticinque condottieri che, di tre in fuori, appartengono tutti al secolo XVI e parecchi dei quali tennero i primi gradi. Molti militarono per Venezia, che aveva dato ai Pepoli il patriziato, altri per la chiesa, per Genova, per Firenze e al cuni per la Francia e per l’ Allemagna. Sono da ricordare :
Ugo che, dopo aver guerreggiato con proprie milizie per Giulio II, passò colonnello al servizio di Lodovico XII di Francia, dal quale gli venne affidato il presidio di Genova. Restò ferito nella rivolta d’ essa città, andò col Lautrech al l’ acquisto di Milano e fu de’ primi nell’ esercito della lega che liberò Clemente VII, dopo il sacco di Roma. Rimase prigione de’ Spagnuoli nell’ espugnazione di Sartirano da lui difeso, fu di nuovo ferito sull’ Adda al passo di Vauri, di cui eragli stata commessa la custodia dal Lautrech. Succeduto ad Orazio Baglioni nel governo dell’ esercito fiorentino, e capitanando le bande nere nel reame di Napoli conteso da Francesi e imperiali, combattè strenuamente sotto Napoli e impedì al dire del Guicciardini (21) che gl’ imperiali facessero grande strage, ma restò prigioniero. Il Giovio (22) lo dice « uomo di chiaro valore » e aggiunge che fu rilasciato in cambio dell’ Ario e del Moncada capitani spagnuoli e che morì poco dopo a Capua, in causa delle toccate ferite.
Girolamo, colonnello de’ Veneziani, tenne per loro il governo di parecchie città. Fabio fu capitano del papa contro gli Ugonotti, colonnello de’ Veneziani contro i Turchi e governatore delle città di terra ferma. Cesare militò in Fiandra per la Spagna, per la conquista di Ferrara colonnello della chiesa, e pei Veneziani luogotenente generale (22). Costituitasi, la dio mercè, in regno la nazione italiana, il conte Ugo vi è generale maggiore. È senatore del regno il conte Carlo, distinto patriotta, letterato, e poeta. È parimente senatore il marchese Gioachino, che fu commissario nelle Marche e nella Venezia quando si annetterono al regno: ministro di stato pel commercio e lavori pubblici, ambasciatore a Pietroburgo ed a Vienna.
I Pepoli contrassero anticamente matrimonii con gli Estensi marchesi di Ferrara, con i signori d’ Imola, di Correggio, di Massa, di Rimino, di Verona, di Treviso e di Faenza; e a’ giorni nostri con una figlia del già re Murat e con una figlia del principe sovrano di Hohenzollern-Sigmaringen, d’onde il parentado con molte case regnanti.
Ebbero in diversi tempi e con diversa durata i feudi seguenti, e forse altri:
La contea di Castiglione de’ Gatti poi detto de’ Pepoli, con Baragazza, Sparvi, Casaglio, Prediera, Rasone, Bruscolo e Boccadirio, ch’era l’antico stato dei conti Alberti di Mangone. Taddeo comprò questa contea nel 1340; fu riconosciuta nel 1369 da Carlo IV imperatore, con autorità di mero e misto impero, e confermata dall’ imperatore Rodolfo II nel 1579 « cum mero et mixto imperio, gladii potestate ac omnimoda jurisdictione, Regaliumque iure ». Per ciò questo stato era retto con particolari statuti (24) da un governatore nominato dai Pepoli, il quale amministrava indipendentemente la giustizia, fino a decretare ed a far eseguire la pena di morte. A tali prerogative principesche Leopoldo I imperatore aggiunse nel 1700 quella di batter in Castiglione moneta d’argento e d’ oro con lo stemma e il cognome dei Pepoli, concedendone il privilegio (25) al conte Ercole ed a’ suoi discendenti, i quali tennero il feudo fino alla rivoluzione del 1796. E fu atto estremo delle loro prerogative baronali il giuramento illusorio imposto dal general Bonaparte e a lui prestato dai Pepoli in Bologna, nel Giugno dell’ anno sopraddetto (26).
La contea, con mero e misto impero, costituita con le città di Bitonto e Rubi, il contado di Terlizzi e di Trivento, le terre di Laurito, Leio, Gualdo, Campomarino, Termoli, Guastalmonte, Ortona, con le fortezze, vassalli e proventi. Contea conceduta nei 1349 a Giacomo, Giovanni e discendenti, dal re Lodovico e dalla regina Giovanna di Sicilia, con privilegio pubblicato dal Ghirardacci (27).
La contea di Melfi e Neustano nella Puglia, e di Trapani in Sicilia data da esso re allo stesso Giovanni; ed è forse per cagione di questo feudo che un ramo dei Pepoli dimorò in Sicilia (28).
La signorìa di s. Giovanni in Persiceto, Crevalcore, Sant’ Agata e Nonantola, patteggiata nel 1350 da Giacomo e Giovanni con l’ arcivescovo e signore Visconti (29).
Le valli di Saligrei e Conti, con terre e castella nel territorio di Massalombarda, concedute nel 1356 a Giacomo o Giovanni dall’ Oleggio, con ratifica del duca Galeazzo Visconti.
Lo stato di Meldola, dato a Galeazzo nel 1379 da Urbano VI.
Il marchesato della Preda, con i castelli di Vedriano, Borzano, Compiano, Roncovero, Roncovecchio e Cornolo, con mero e misto impero, per investitura data a Cesare nel 1594 dal duca Ranuzio Farnese (30).
Il marchesato di Scurano con i castelli di Razzano e di Pianzi e con diritto di sangue, conceduto ad Ugo nel 1596 da Alfonso duca di Ferrara, col canone annuo d’ uno stocco dorato. Fu poi permutato nel 1614 col marchesato di Guiglia, per beneplacito di Cesare duca di Modena.
Il marchesato di Casegli di cui fu infeudato Taddeo nel 1608 da papa Paolo V.
La signorìa di Nonantola e la contea di Cerreto data dal duca di Modena Alfonso IV ad Ugo Giuseppe nel 1680 (31).
I Pepoli possedettero eziandio una sterminata quantità di beni allodiali, e il Galeotti scriveva nel 1585 (32) che non bastavano a coltivarli 3,800 persone.
Ma i diritti feudali di Castiglione furono fatali ad un dei Pepoli che volle mantenerli intatti contro l’ assoluta veemenza di Sisto V. Il quale con volontà ferrea, coll’ impeto del suo temperamento, e senza far sparagno di capestro si diede a perseguitare i banditi che infestavano lo stato nei primordii del suo pontificato. Ora avvenne che in seguito d’ un minaccioso editto del cardinal Salviati legato a Bologna, alcuni paesani catturarono nella giurisdizione di Castiglione un Gratizino da Scanello, bandito, e lo tradussero nelle prigioni baronali. Lo richiese imperiosamente il legato al feudatario conte Giovanni Pepoli, senatore di Bologna, già colonnello della chiesa, settuagenario integro, altrettanto benefico quanto ricco ed universalmente stimato; ma d’ indole subitanea, e tenace nella conservazione de’ suoi diritti feudali. Ricusò quindi al legato di consegnare il prigione, allegando che, catturato in un feudo imperiale, per ciò immune dalla giurisdizione di altro principe, apparteneva a sè solo come feudatario imperiale di giudicarlo nelle vie ordinarie e quindi o di punirlo o di assolverlo. Il legato insistette e il Pepoli esasperato soggiunse, che riguardo al suo feudo non era soggetto se non a Dio, nè conosceva pontefice o altro principe. Profittonne il legato per farlo distenere e per sottoporlo a rigoroso processo, qual reo di lesa maestà.
Intanto una masnada di ottanta banditi con un colpo di mano traeva dalle carceri di Castiglione il Gratizino, di che fu fatto ulteriore colpa al Pepoli. Il quale scriveva ad alcuni cardinali querelandosi con libere e pungenti parole dell’ ingiuria e dell’ iniquisizione patite. Ma Sisto V, che andava per le corte, non tardò guari a decretare la sentenza capitale contro il Pepoli, non ostante l’ interposizione del duca di Ferrara, e a mandare per corriere l’ ordine al legato di farla eseguire. Ed ecco come una cronaca contemporanea, riportata dal canonico Ghiselli (33), narra il caso pietoso.
L’ indomabile feudatario che poteva levare quattrocento uomini in arme (34), « era stato messo (dice il cronista) nelle stanze nuove (del palazzo pubblico) che guardano verso il cortile, murando le finestre e lasciandogli un solo spiraglio. Gli furono permessi due servitori per essere mal sano e settuagenario… Il corriere (apportatore della sentenza di morte) giunse la notte del 30 agosto (1585): il Legato fece chiamar subito quattro cappuccini… non che Don Pietro Canobbi cappellano di Palazzo e confessore del Pepoli. Il bargello fece alzare il conte e tosto che fu vestito comparvero li religiosi, uno dei quali annunziò la sentenza. Volle far testamento ma gli fu negato il notaro. Cominciò a scriverlo in latino di proprio pugno, ma non potè proseguire e fu poi un frate che lo scrisse. Terminato il quale il bargello gli pose le manette, il manigoldo gli legò le mani alla sedia e gli pose un capestro coperto di raso al collo, ma per essere tròppo grosso non potè strangolarlo. Il bargello corse per corda più sottile e con questa finì di vivere. Li frati andarono dopo dal conte Ugo e dal conte Romeo (35) per confortarli. Questa rigorosa giustizia rese attonita la città per essere il conte uomo di ottimi costumi ed estremamente caritatevole. Il fisco prese possesso di tutti li suoi beni ascendenti alla somma di 560,000 ducati ».
Un secolo dopo il genealogista Dolfi (36), stampando la sua cronologìa, sotto un governo in gran parte pontificio, compendiava tutto ciò con queste parole : « fu fatto strangolare (il Pepoli) dal cardinale Salviati inaspettatamente. » Ora si può dire che quella esecuzione, se non altro per la fretta e pel modo, fu turchesca.
Le antiche case dei Pepoli erano in via Castiglione e segnatamente a capo presso il fòro de’ mercanti e da esse Romeo fuggiva inseguìto dal popolo. Cospicuo n’ è tuttavia il pianterreno per bella e ornata architettura ogivale con pilastri isolati e serve di rimessa alla casa Sampieri dopo essere stato usato per la dogana. Poichè il comune comprò queste case tra il 1379 e il 1383 dagli eredi di Niccolò Pepoli, per lire 3,000, al fine di aggrandire l’ edificio della dogana o gabella (37). In tali case, ch’ erano in parocchia di s. Maria di Porta ravegnana, sorgevano e sorgono tuttavia due torri; quella dei Pepoli e quella dei dalle Perle comprata dal suddetto Niccolò, del già Romeo, nel 1306 (38).
Un sesto indiviso di quella dei Pepoli apparteneva a Ugolino Codigelli, il quale ne fece vendita nel 1273 a Romeo Pepoli (39). Risulta però che la torre rimase indivisa con altri dei Codigelli e co’ Zovenzoni, poichè nel 1295 Francesco del già Pietro di Zoene Pepoli, vendette essa metà di torre indivisa con i Codigelli ai d’ Algarda (40). E i Codigelli nel 1299 vendettero a Zoene detto Zengolo del già Ugolino Pepoli metà indivisa d’ essa torre (41). Questa torre, passata poi in proprietà del comune, fu affittata nel 1393 a Giovanni de’ Calderini per lire 5 annue (42). Ma, non so come, quaranta giorni dopo il comune affittava questa e l’ altra torre sopraddetta, non che una parte delle suddette case degli eredi di Niccolò Pepoli, a Pietro di Galisio notaro per lire 12 annuali (43). Queste due locazioni sono registrate sincronalmente in libro apposito, l’ una al foglio 115, l’ altra al 133. L’ultimo di tali documenti contiene la descrizione della parte di case affittata, che aveva una grande sala superiore e pressovi un grande cammino.
La torre dei Pepoli, non che l’ altra appartenuta ai dalle Perle discosta solo met. 7,40, è compresa nell’ attuale casa Sampieri che ha l’ entrata in via s. Stefano n. 73, e la torre si vede in un cortile da terra fin sopra i tetti, secondo che fu mozzata. È alta met. 23,35,, larga met. 8,52; i muri sono grossi met. 0,93 da basso e met. 0,88 in cima : sono molto ineguali nei sotterranei, giacchè variano da met. 1,9 a met. 2,65. La parte loro mediana è bensì riempita a sacco, ma con rottame di mattoni anzichè con i soliti ciottoli. Questa torre è indicata dall’ Alidosi (44) quale proprietà al suo tempo dei Bonafede, ch’ ebbero a eredi i Sampieri.
Romeo Pepoli era comproprietario ( 1282) d’un’ altra torre con i Boccadiforno nella parocchia di s. Maria di Porta ravegnana e probabilmente altresì in via Castiglione (45). Nella qual via Taddeo, figlio di lui e signore di Bologna, cominciò a fabbricare nel 1345 il vasto e maestoso palazzo merlato che ha quattro grandi porte sul davanti ed un labirinto di cortili, di scale e di corridoi, e vi comprese una torre che si crede appartenuta ai Tettalasina. Gregorio IX comprò dagli eredi di Giovanni Pepoli e ridusse a collegio, intitolandolo dal proprio, nome questo palazzo (1371), il quale dopo varie vicende fu ricuperato dai Pepoli nel 1474 (46). Gli sta dicontro il principesco palazzo nuovo, edificato altresì dai Pepoli nel secolo XVII.
Essi ebbero nel trecento un’ altra torre non guari lontana, ove le due strade di Castiglione e di s. Stefano si riuniscono, ossia sul Carrobio, ed è tuttavia sussistente. — Vedasi Riccadonna.
L’ isola di caseggiato, che comprende questa torre e l’ altra nelle Giupponerie appartenuta agli Alberici (47), fu lasciata a pro della pubblica beneficenza da Francesco Pepoli detto Tarlato, fratello di Taddeo il signore, morto nel 1330 senza prole. Ai domenicani n’era affidata l’amministrazione col titolo di commissaria, ritenuto anche oggi. E, sul davanti della torre ch’ è nel Carrobio, era dipinto esso Tarlato presso la Madonna, con sotto la scritta Commissaria del magnifico messer Francesco detto Tarlato Pepoli 1330. Restaurata 1744 (48).
(1) Savioli, Ann. v. 3, pag. 259.
(2) Savioli, Ann. v. 3, pag. 256; v. 5, pag. 172, 481.
(3) Villani Gio. Cronica, lib. 9, cap. 132. Sismondi, Hist. des répub. chap. 30.
(4) Scarabelli, Relaz. dell’ importanza e dello stato degli archivi bolognesi, pag. 47.
(5) De Griffonibus M. Memor. col. 140. Ghirardacci, Hist. v. 2, pag. 12. Si-smondi, Hist. des répub. cliap. 30.
(6) Fautuzzi, Notiz. v. 6, pag. 362.
(7) Histor. miscell, col. 370. De Griffonibus M. Memor. col. 158. Sismondi, Hist. des repub. chap. 34.
(8) In molte repubbliche italiane fu detta maltraversa, cioè che si attraversa al male, la fazione che difendeva la costituzione.
(9) Histor. miscell, col. 374. Sismondi, Hist. des répub. chap. 34.
(10) Histor. miscell, col. 375. De Griffonibus M. col. 161. Sismondi, Hist. des répub, chap. 34.
(11) Histor. miscell, col. 375. Sismondi, Hist. des répub. chap. 34.
(12) Histor. miscell, col. 387. Sismondi, Hist. des répub. chap. 36.
(13) Stor. della scult. v. 3, pag. 373.
(14) Histor. miscell, coi. 418. Sismondi, Hist. cles répub. cliap. 39.
(15) Cronaca, lib. 1, c. 63. Sismondi, Hist. des répub. chap. 39.
(16) Villani, Matt. Cron. lib. 1, e. 61, 63, 67, 68. Histor. miscell, col. 417, 418, 419, 420. Ghirardacci, Hist. v. 1, pag. 198, 199.
(17) Histor. miscell, col. 423. Ghirardacci, Hist. v. 2, pag. 211.
(18) Histor. miscell, col. 482. Ghirardacci, v. 2, pag. 223, 292.
(19) Zanetti, Delle monete di Bol. parte ms., pag. 68, 78.
(20) De Griffonibus M. Memor. col. 191. Fantuzzi, Notiz. v. 6, pag. 351, Mazzetti, Repert., pag. 240.
(21) Stor. d’Italia lib. 14, cap. 3 ann. 1521, cap. 5 ann. 1522; lib. 15, cap. 3 ann. 1524; lib. 18, cap. 4 ann. 1527; lib. 19, cap. 2 ann. 1528. Crescenzi, Nobil. d’ Italia, pag. 563.
(22) Historiar. sui temporis., v. 2, lib. 20.
(23) Dolfi, Cronolog., pag. 597, 599, 600.
(24) In un catalogo a stampa di libri del libraio Guidi (1864) a pag. 67 sono notati gli « Statuti di Castiglione de’ Gatti, feudo imperiale de’ conti Pepoli, riformati l’anno 1617: divisi in due parti, cioè civile e criminale, con delle riforme del 1793-94. Cod. cart. del sec. XVIII, di carte 146 in fol. ».
(25) Il privilegio è nell’archivio dei Pepoli.
(26) Guidicini, Cose not. v. 1, pag. 298.
(27) Hist. v. 2, pag. 193.
(28) Guidicini, Cose not. v. 1, pag. 299.
(29) Guidicini, Cose not. v. 1, pag. 299.
(30) Guidicini, Cose not. v. 1, pag. 298.
(31) Salvetti, Stor. ms. della famig. Pepoli. Crescenzi, Nobil. d’ Italia, pag. 553. Guidicini, Cose not. v. 1, pag. 299.
(32) Trattato degli uom. illusi, bologn. pag. 70.
(33) Cronaca ms. v. 18, pag, 85.
(34) Galeotti, Trattato, pag. 72.
(35) Figlio il primo, cugino l’altro, illegittimi, del conte Giovanni.
(36) Cronolog. pag. 599.
(37) Guidicini, Cose not. v. 1, pag. 318.
(38) Guidicini, Cose not. v. 1, pag. 318.
(39) Guidicini, Cose not. v. 1, pag. 318.
(40) Docum. n. 207.
(41) Docum. n. 220.
(42) Docum. n. 226.
(43) Docum. n. 227.
(44) Instrut., pag. 190.
(45) Docum. n. 119.
(46) Fantuzzi, Notiz. v. 3, pag. 187.
(47) Vedasi Alberici.
(48) Aprendo i grandi sportelli che cuoprono quel dipinto non si trovano più né Tarlato Pepoli, né la scritta, e si vedono ammodernati la Madonna con fiori in mano e col Bambino ed i santi Girolamo, Domenico, Antonio ed un frate. Notai che anche nella Garisenda é dipinta la Madonna con santi e con un divoto.